Recensione di Massimiliano Artibani
L’industria cinematografica italiana celebra con grande fervore e proliferare di dibattiti la nascita di nuovi “enfants terrible” o per lo meno spera ardentemente che i fratelli D’Innocenzo lo possano essere. Un prodotto esportabile all’estero, sufficientemente intellettuale, accattivante, ricolmo del mood dark chic che va tanto di moda nel mondo grazie soprattutto alle azioni di neuromarketing di Netflix e similari.
I registi fratelli sono arrivati alla terza opera ufficiale e ci si aspetta a questo punto una loro consacrazione soprattutto perché la seconda, che di solito è la più difficile, è stata “favolaccie” osannata da molti come un piccolo capolavoro nichilista e vincitrice di un premio nel tempio del cinema intellettuale, quello serio della Berlinale.
Sufficientemente trasgressivi e fuori dagli schemi anche nei modi, sembrano snobbare i salotti ristretti del cinema nostrano ritagliandosi uno spazio apparentemente alternativo, in realtà hanno trovato una buona organizzazione che li confeziona e li vende molto bene entrando a far parte della stessa piccolissima mangiatoia che apparentemente rinnegano della nostra industria cinematografica. Ed ancora una volta noi piccoli spettatori ci siamo cascati con tutte le scarpe. Ma non sentiamoci più di tanto in colpa con noi stessi, in fondo crediamo tranquillamente che mc donald ormai produca panini gourmet bio con i prodotti del contadino vicino casa e va bene così.
Il Film è confezionato bene, nulla da eccepire nella messa in scena, nella creazione della cornice e nell’uso delle submodalità.
Ci troviamo nella periferia paludosa e anonima di Roma, la loro città natale. Latina, è come sappiamo un’anonima città satellite a 40 miglia dalla capitale, frutto del sogno onnipotente ed autarchico di Mussolini, ma non traetevi in inganno non c’è assolutamente nessun riferimento politico. È qui che il ricco dentista Massimo (Elio Germano, che torna proprio dopo “Favolacce”) ha costruito una vita di lusso arroccata sopra lo squallore. Cosa vuol dire l’ “America” del titolo ci risulta meno ovvio. Forse si riferisce all’ideale capitalista – il sogno americano, esportato – che Massimo e la sua bella famiglia nucleare sembrano incarnare. Forse è un’allusione alle molteplici influenze americane, dal pulp noir a David Lynch, della serie “ sto firm lo famo all’americana, magari qualcuno ce crede davvero”.
Se Latina sembra un’ambientazione poco invitante, una serie di inquadrature dall’auto sui titoli di testa alla fine dimostrano il valore della decisione di Massimo di stabilirsi lì. Un crogiolo di strade e svincoli, con uscite verso il nulla cosmico, ad un certo punto finalmente porta verso il dialetto della sua magnifica casa, moderna e spigolosa, sinuosa e accattivante, inesorabilmente illuminata dal sole, fa da contraltare al buio interiore del protagonista, tuttavia risulta eloquentemente decadente e con un senso profondo di marciume. Le pareti esterne sono colme di fessure e segnate dalle intemperie; la piccola piscina è diventata di un verde agrumato. Per Massimo quella è casa e sembra vivere lì una vita agiata con la sua servile moglie Alessandra (Astrid Casali) e le loro due figlie (Carlotta Gamba e Federica Pala), entrambe una riproduzione in miniatura della madre, vestite come lei con identici abiti pallidi e svolazzanti.
La due bambine ricordano in qualche modo The Shining. Infatti il mood horror, thriller è realizzato molto bene, i D’Innocenzo hanno dimostrato di essere veramente molto bravi in questo.
Infatti l’idillio domestico, serenamente borghese, anche se un po’ inquietante, di Massimo viene presto infranto da una sgradita scoperta in cantina: una giovane ragazza non identificata (Sara Ciocca), imbavagliata, picchiata e legata a un pilastro, che emette un urlo selvaggio e incessante quando riesce a liberare la bocca. Massimo non la libera né informa nessuno, nemmeno la sua famiglia, della sua presenza mentre cerca di capire come sia arrivata lì. Sospetta in primis dell’amico Simone (Maurizio Lastrico) e la loro relazione molto bene rappresentata dai dialoghi e dalla recitazione,prende una piega acida e diffidente, anche se i suoi sospetti dovrebbero probabilmente volgersi all’interno, poiché “America Latina” si muove sul crinale del vago limbo di realtà contro illusione. Soluzione fin troppo facile
Il film si costruisce su questa ambiguità ed apparentemente incalza nel cercare delle risposte concrete sui motivi della presenza della ragazza e su chi sia stato, ma la storia cerca di prenderci per mano e portarci invece sulla crisi di mezza età del protagonista, sembrerebbe questo il tema più interessante. Purtroppo anche se la recitazione di Elio Germano è intensa e realistica, Massimo non riesce ad acquisire spessore ai nostri occhi, il male di esistere, tutto il nichilismo interiore, la decadenza, la morbosa malattia sociale che abita la nostra comunità umana risulta banale, stantia, trita e ritrita. Il tutto funziona perché c’è un grande lavoro di cesello il montaggio frammentario ed incalzante, la colonna sonora pungente dei Verdena, Una fotografia che ti incolla allo schermo elegantemente riveste tutto il film di un respiro decisamente internazionale, C’è anche della sensualità ed un ostentazione della carne, ma con gusto estetico, tutto giocato sui riflessi della luce: vedere la scena della doccia di Massimo
Purtroppo la colpa più grave di un film così è la mancanza profonda di ricerca di bellezza intrinseca, quella che salverà il mondo. I D’Innocenzo non la vogliono cercare ne fanno una poetica precisa e voluta e ben venga, però ha il sapore di cliché e pochezza di spirito. Perché raccontare così l’ossessione fine a se stessa, l’oscurita, il morbo della mente e dell’animo come se si affermasse una verità assoluta senza possibilità di redenzione, ma con questa superficialità. E non venitemi a parlare della funzione catartica della tragedia greca, non c’entra assolutamente nulla con questo tipo di film. Qui c’è molto manierismo e poca sostanza, le tragedie per i greci erano un percorso di educazione emotiva al senso di umanità che ci permette di essere uomini, in questo caso la paura di essere malati resta fine a se stessa, sembra l’espressione infantile di due bambini che vogliono ribellarsi ma ci dicono al massimo che la società fa schifo, un altro esercizio per alimentare l’ego ipertrofico degli esseri umani, nella stantia dinamica di chi si percepisce migliore.