FARHA

UN FILM DI DARIM J. SALLAM

Recensione di Claudia Marina Lanzidei

 

Un film sui generis quello della regista palestinese Darin J. Sallam, in selezione alla sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Farha è un lungometraggio che cambia improvvisamente rotta, stravolgendo emotivamente personaggi e spettatori, e che mette in scena una crudeltà al limite dell’immaginabile, adottando un punto di vista molto particolare. Novantadue minuti, durante buona metà dei quali guardare lo schermo è quasi insopportabile; volutamente.

Tutto cambia, dal giorno alla notte

Farha, film che prende il nome dalla protagonista, una ragazza di quattordici anni che vive in un villaggio palestinese nel 1948, è una breve finestra temporale sulla vita di questa ragazzina molto acuta e volenterosa (interpretata da Karam Taher), che vive con il padre, sindaco del suo villaggio (interpretato da Ashraf Barhom). Farha è esuberante, molto intelligente, e decisa ad ottenere ciò che desidera, cioè continuare a studiare nella scuola in città insieme alla sua migliore amica Farida, senza sposarsi. Il villaggio, nonostante il legame affettivo e il bel rapporto con il padre, le sta decisamente stretto. Il padre sembra inizialmente poco propenso a farla studiare, e spinge Farha ad accorgersi delle attenzioni di suo cugino. Ma l’insistenza della ragazza e i consigli di uno zio lo convinceranno ad iscrivere la figlia a scuola. Purtroppo, il giorno successivo a questa splendida notizia, inizierà l’invasione israeliana.

Questo evento fa chiudere in maniera improvvisa il primo atto del film. Se finora la cinepresa aveva ritratto un luogo gioioso, pacifico (a parte una rapida apparizione dell’esercito inglese in ritirata), pieno di speranza per il futuro, e un paesaggio ameno e rigoglioso, il boato che Farha e Farida sentono mentre sono intente a chiacchierare nel loro angoletto con le altalene sancisce l’inizio di eventi infernali. Il film diventa un altro, completamente antitetico rispetto al suo incipit.

Quello che prima era un ridente villaggio immerso nel verde diventa un cumulo di macerie, edifici e alberi ridotti a carcasse, grigi. Le interazioni tra le persone, prima cordiali e serene, diventano incontri ostili, spesso portatori di morte. L’immagine del neonato morto e circondato di mosche è forse il simbolo più forte di questa antitesi: una nuova vita immediatamente tramutata in cadavere.

Farha immagine 3

Il punto di vista: un buco nel muro

Per tutta la durata dell’opera, la macchina da presa segue Farha. I suoi occhi guidano lo spettatore all’interno del film, facendolo orientare nel contesto sociale circostante. Guardando il mondo con gli occhi della vivace ragazza, chi è davanti allo schermo riesce a percepire colori, emozioni e desideri di Farha, facendoli suoi. La cinepresa non la lascia mai, neanche quando tutto cambia colore, nella parte centrale della pellicola; anzi, in un certo senso qui la macchina si avvicina ancora di più, tanto da non abbandonare mai la cantina, buia e chiusa a chiave dall’esterno, in cui Farha è rinchiusa.

Durante questo momento del film, ciò che gli spettatori possono carpire della guerra è unicamente ciò che vede e sente Farha: rumori, tonfi sordi, colpi sparati da mitragliatrici e altre armi, passi, urla sempre più distanti e silenzio. Dal punto di vista visivo, Farha non può fare altro che guardare da un buco nel muro dal quale passa a malapena la sua mano, o da sotto la fessura della porta, sul cortile di casa sua. Questo luogo, altamente simbolico, oltre che diventare un tripudio del silenzio e dell’abbandono, diventa teatro di orrori difficilmente descrivibili, che Farha è costretta ad osservare, insieme agli spettatori, dal suddetto buco nella parete.

Farha immagine 4

Una scelta registica, quella di lasciare chi è davanti allo schermo totalmente all’oscuro di ciò che sta accadendo al di fuori del cortile di casa, voluta ed efficacie, con un duplice obiettivo: da un lato quello di trasmettere agli spettatori il senso di disagio e claustrofobia che attanaglia la protagonista. Dall’altro, quello di innescare una riflessione più generalizzata sulla guerra come fenomeno umano universale e sulla sua effimera brutalità, in grado soltanto di vanificare sogni e vite future.

Farha, una donna come simbolo di tutta la Palestina

Farha, come un gran numero dei film andati in scena alla Festa del Cinema di Roma di quest’anno, è un’opera che racconta la storia di un personaggio femminile, mettendone in risalto il talento, il carattere deciso e la volontà di perseguire i suoi desideri nonostante le difficoltà di un contesto sociale che penalizza le donne.

Nel caso di questo film, la giovane ragazza palestinese non è solo portavoce della sua storia personale e dei suoi sogni di vita, ma diventa un simbolo della Palestina nella sua interezza, parlando a nome di tutti, anche della parte maschile della popolazione. Il messaggio che Farha trasmette è quello delle vite interrotte, dei progetti non più realizzabili, dell’impossibilità di sottrarsi alla tragedia della guerra, dovendo assistere, da un rifugio-prigione, alla distruzione spietata di ciò che prima era solido, rigoglioso ed accogliente.

Un elemento significativo in questo senso è il foglio di iscrizione a scuola di Farha, che il padre le aveva consegnato il giorno prima dell’invasione del villaggio, e che lei custodisce e ogni tanto rilegge, quasi a ricordarsi di quel sogno realizzato e subito svanito. La scena in cui la protagonista, sola e prigioniera nella cantina buia attorniata dal silenzio, canticchia con amara ironia le parole “Evviva, Farha andrà a scuola in città!” è un’altra presa di coscienza di quella sua vita perduta.

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Il nonsense della guerra

Vi è una sequenza di scene lunga diversi minuti in cui Farha assiste al massacro ingiustificato di varie persone nel cortile di casa sua. Si tratta di immagini di una violenza quasi esagerata, molto difficili da guardare ed accettare, anche con il filtro dello schermo. Esse però sono in linea con il filo conduttore della storia, e rappresentano il risultato di una scelta provocatoria ma assolutamente intenzionale, una presa di posizione, un forte impulso alla riflessione.

Quella serie di immagini terribili, in cui i carnefici sono spogliati di qualsiasi traccia di umana compassione, non solo è il modo in cui la regista sceglie di rappresentare quel particolare conflitto, ma è una descrizione, e di conseguenza una denuncia, della guerra in generale. Difatti, l’invasione israeliana della Palestina non viene spiegata, anzi non viene neanche precisato che si tratti precisamente di quel conflitto, non vi è una voce narrante che parla di cosa stia succedendo, né ciò si evince da alcun dialogo.

L’unica cosa che l’occhio della cinepresa cattura è un teatro dell’assurdo, sbirciato di nascosto da Farha, spettatrice tanto quanto chi guarda il film. Non vi è alcuna volontà di far capire il perché un simile spettacolo stia avendo luogo nel cortile di casa di Farha sotto i suoi occhi lacrimanti, né di dare un senso a un qualcosa che ne è assolutamente privo, violenza gratuita e impensabile, atrocità senza fine.

Valutazione
3.5/5

Un film duro, terribile, generatore di incubi, ma specchio della realtà. Farha sceglie di utilizzare un registro di immagini fin troppo brutale, quasi voltastomaco, al fine di innescare una riflessione, e a modo suo riesce nell’intento.