FINCHÉ C’È GUERRA C’È

SPERANZA

UN FILM DI ALBERTO SORDI

Recensione di Claudia Marina Lanzidei 

In Finché c’è guerra c’è speranza, Pietro Chiocca (Alberto Sordi) è un padre di famiglia e marito devoto, che si fa letteralmente in quattro per il benessere della moglie e dei figli. Il suo lavoro di commesso viaggiatore in armi da guerra gli permette infatti di far vivere nel lusso tutti i suoi cari. Ma nonostante l’assoluta legalità del suo lavoro, qualcosa stride in maniera sempre più insistente, fino a – letteralmente – esplodere.

Due mondi che sembrano non toccarsi mai

Pietro Chiocca è impegnato, per tutta la durata del film, in un continuo vai e vieni fra due mondi. Il primo è quello della Milano bene in cui vive con la sua famiglia, dell’appartamento con vista duomo in cui la moglie Silvia si consuma fra una partita di poker e l’altra, in cui la figlia adolescente non fa che sospirare con il fidanzatino al telefono e in cui i due figli maschi, apparentemente angelici, guardano di nascosto giornaletti erotici. Il secondo è il mondo genericamente definito Africa, reso volutamente esotico e geograficamente lontanissimo. Questi due universi che si alternano continuamente la scena sono agli antipodi, così distanti tra loro che faticano anche solo ad immaginarsi l’un l’altro, e non sembrano in nessun modo influenzarsi a vicenda.

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L’unico mezzo che riesce a colmare la distanza che li separa è l’aeroplano, che negli anni ’70 era probabilmente considerato un tipo di trasporto più eccezionale di oggi. Esso è un elemento che ricorre anche in altri film di Sordi (basti pensare a Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata), e sta proprio ad indicare, anche simbolicamente, l’idea di uno spostamento estremo e il collegamento fra due realtà sociali e geografiche estremamente lontane. In effetti, in Finché c’è guerra c’è speranza l’aereo compare fin dalle prime scene, a narrare lo spostamento del protagonista dalla primitiva Africa, dove ci si muove sul dorso di un cammello, alla moderna Milano.

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Dividersi tra due mondi

Pietro Chiocca è molto abile nel giostrarsi fra questi due mondi, in ognuno dei quali recita una parte così diversa da sembrare un’altra persona. Se a Milano è un amorevole padre e un onesto marito, in Africa è un mercante sfrontato e avventuriero, sicuro di sé e pronto a tutto pur di portare a termine i suoi affari. Anche il tempo sembra scorrere in maniera diversa nelle due realtà che fanno da sfondo al film: in Italia la vita di Pietro è inesorabilmente rapida, fatta di notti e di giorni isolati e faticosamente sottratti all’inesorabile scorrere delle coincidenze aeree. In Africa, invece, il tempo sembra non passare mai, appare piatto agli occhi dello spettatore, un mondo in cui lo scandire delle ore non sembra intaccare ciò che comunque, prima o poi, dovrà succedere.

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L’Africa vista con gli occhi della commedia

Se il tempo vissuto dal protagonista a casa sua in compagnia della famiglia sembra nient’altro che una manciata di secondi, Alberto Sordi (anche regista di Finché c’è guerra c’è speranza) dà molto spazio alle esperienze di Pietro Chiocca in Africa. Dell’Africa il regista fa un ritratto che, seppur esagerato dai toni della commedia, denuncia gli stereotipi e i pregiudizi del mondo occidentale. Portando agli estremi i tratti esotici e primitivi del continente africano, Alberto Sordi mostra in maniera quanto mai lucida e brillante il ruolo che ha l’occidente, con la sua stessa prepotente presenza, nella creazione della violenza e della povertà che caratterizzano quel mondo.

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I mezzi utilizzati per trasmettere questo messaggio sono assai semplici, quasi impercettibili. Un esempio è una delle scene in aeroporto, in cui il protagonista viene fermato ai controlli di sicurezza per aver fatto suonare il metal detector: quando la polizia lo intima di aprire la sua valigetta, c’è un medico al suo fianco che ha avuto lo stesso problema; ma mentre la valigetta del medico era carica di stetoscopi (anch’essi metallici), quella di Pietro Chiocca è piena di bombe e pistole. I due ricevono però lo stesso trattamento, e Pietro chiama il medico “collega”, sotto gli occhi indignati di quest’ultimo.

Commercio e politica: due cose distinte?

Il protagonista di Finché c’è guerra c’è speranza ha una scala di valori ben precisa, resa chiara agli spettatori fin dall’inizio del film. La sua famiglia è ciò che viene prima di ogni altra cosa, e di conseguenza anche il benessere delle persone che gli sono care. Questo amore incondizionato, alimentato dal desiderio di soddisfare le richieste sempre più esigenti di moglie, figli, suocera e cognato, lo ha portato a distaccarsi completamente dal pensare alle implicazioni etiche del suo lavoro.

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Il fatto che ciò di cui si occupa sia legale e non perseguito dalla legge gli basta a renderlo assolutamente indifferente verso ciò che il suo lavoro può causare in mondi altri, come appunto l’Africa. Molto significativa è la scena in cui spiega la sua visione al giornalista del Corriere: “Ecco la vedi questa?” dice riferendosi alla pistola, “questa non è né buona né cattiva, questa per me è un oggetto, e io così te lo vendo; poi sei tu che lo puoi far diventare buono o cattivo”.

L’inesorabile prendere coscienza di Pietro

Ma nonostante la sua ostentata indifferenza, Pietro non è del tutto asettico rispetto a ciò che vede. Vi sono infatti, nel film, continui rimandi alle contraddizioni che avvolgono il suo mestiere: basti pensare al morto ammazzato che il protagonista deve scavalcare quando scende le scale di fianco al presidente di uno stato africano non specificato, o le scene di affetto e vita quotidiana che osserva nella comunità dei ribelli. I segnali si fanno sempre più chiari, e allo stesso tempo Pietro Chiocca si fa via via più pensieroso e titubante. Il giornalista del Corriere della Sera nel quale si imbatterà a un certo punto, lo stesso che denuncerà l’operato del mercante di armi, è un punto di svolta per la presa di coscienza del protagonista, che alla fine sembra non riuscire a reggere più il peso morale di quella professione scellerata.

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Quando fa ritorno a casa per l’ultima volta dopo aver rischiato lui stesso la vita, nella celebre scena in cui pronuncia il monologo chiave che racchiude l’intero messaggio del film, Pietro sembra cambiato e per un attimo deciso a mollare tutto. Egli si rivela però alla fine troppo servile nei confronti della famiglia, un uomo assoggettato e annullato dai capricci dei figli e della moglie, che non è padrone né del suo tempo né delle sue azioni. Il suo discorso nel salotto di casa, di fronte al tribunale familiare fintamente indignato per il suo mestiere poco etico, rivela sia la sua piena presa di coscienza su come va il mondo, ma anche la sua rassegnazione all’idea di essere nient’altro che una pedina priva di facoltà.

La famiglia, allegoria di una società, di ieri e di oggi

La cerchia famigliare del mercante di armi è, con la sua ipocrisia portata allo stremo, nient’altro che la rappresentazione di quella che Sordi intende per società italiana (e più ampiamente occidentale). Se quella del regista è la società degli anni ’70 (Finché c’è guerra c’è speranza è infatti datato 1974), il ritratto che Sordi ne fa non ha assolutamente perso di attualità, anzi si potrebbe dire che quella di oggi mantiene le caratteristiche di quella di allora, ma con degli elementi ancora più accentuati e contraddittori. Riflettendo sulla contemporaneità, infatti, ci si trova oggi in un contesto in cui le leggi del mercato e il desiderio di consumo riescono a scavalcare, sempre, i diritti umani. Ogni gesto, ogni scelta di acquisto ha un risvolto etico, ma la lontananza geografica delle conseguenze delle proprie scelte consumistiche tendono ad annullare la responsabilità del singolo.

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Far finta di niente: un modus vivendi

Parlare di ciò che è eticamente scomodo è considerato poco raccomandabile, quasi un tabù, ed è auspicabile cercare in tutti i modi di tenerlo nascosto. Ciò spiega l’indignazione e il perbenismo di circostanza mostrati dalla famiglia di Pietro al momento dell’uscita dell’articolo sul Corriere della Sera che denuncia le azioni del protagonista mettendole nero su bianco senza possibilità di fraintendimento. Ma, come dice il cognato di Pietro, dopo due settimane qualsiasi notizia cade nel dimenticatoio.

Certo è, però, che in quei pochi istanti in cui la verità viene a galla – prima di essere inesorabilmente ricacciata nell’oblio dal quale è venuta – lì la società occidentale, così come la famiglia di Pietro, fa finta per un attimo di interessarsene, dando il proprio giudizio su cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ma questa presa di posizione etica dura un’istante, il tempo di far riposare Pietro per quell’oretta prima del prossimo volo. Poi ritorna sul palcoscenico della vita quell’ostentata, gloriosa indifferenza.

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Finché c’è guerra c’è speranza non ha un lieto fine, ma è la pura descrizione della dominanza assoluta di quest’indifferenza. Pur lasciando a spettatori e spettatrici un sapore amaro, un attimo di lucidità e contrarietà per come va il mondo, e il desiderio di dissociarsi dall’essere come la famiglia Chiocca, si tratta di poco più di un’istante. Presto si tornerà a dimenticare che il benessere e tutto ciò che luccica sono indelebilmente macchiati di sangue.

Valutazione
4/5

Un film assolutamente da vedere e da rivedere, uno spunto di riflessione prezioso per interrogarsi sui problemi della contemporaneità e sulle contraddizioni che caratterizzano il villaggio globale, fatto di mondi invisibili e indifferenti l’uno all’altro. Un interprete incredibilmente capace, come non se ne vedono quasi più, che ci parla di oggi parlandoci di ieri.