LE SORELLE MACALUSO

UN FILM DI EMMA DANTE

Recensione di Claudia Marina Lanzidei

 

Le sorelle Macaluso, secondo film di Emma Dante, il quale ha vinto il premio Pasinetti per miglior film e interpretazione femminile alla Mostra Internazionale cinematografica di Venezia del 2020, è una storia che parla di donne, in cui la femminilità assume varie forme, e in cui l’amore e l’odio si sovrappongono continuamente, facendo assumere ai sensi di colpa una dimensione collettiva.

Una storia di donne

Le cinque sorelle protagoniste fanno la loro apparizione sullo schermo come ragazze esuberanti e gioiose, litigiose e amorevoli, combattive e capaci di cavarsela da sole. Un paio di scene iniziali che ritraggono spazi domestici e gesti quotidiani bastano agli spettatori per comprendere il contesto della vicenda e le caratteristiche di ognuna delle sorelle, il loro ruolo e le relazioni che tra loro intercorrono. Al di là della quotidianità, dalle prime immagini si evince anche che si prospetta una giornata diversa dalle altre, che tutte le sorelle stanno aspettando con impazienza.

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La cinepresa si sofferma poco sulle sorelle singolarmente, eppure il risultato dell’opera di Emma Dante è un ritratto organico, in cui ognuno dei personaggi, pur non essendo contornato da molte parole, è descritto in maniera tale da permettere a chi guarda di conoscerlo a fondo. Questo risultato è merito sia dell’intensità degli sguardi e dei gesti ripresi dalla regista (la quale non a caso è in primis una regista teatrale), sia della dimensione corale di ciò che appare sullo schermo.

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Difatti ognuna delle donne protagoniste mostra dei caratteri propri, delle modalità differenti di esprimere la propria femminilità, la quale fuoriesce, in ciascuna, grazie all’interazione con le altre. Da quest’incontro continuo traspaiono contemporaneamente amore e odio, affetto e conflitto, dolcezza e ostilità, ma anche complementarietà.

Le sorelle Macaluso e il dolore che resiste al tempo

Le immagini giovanili delle cinque sorelle e l’azzurro del mare di Palermo, improvvisamente eclissato dal suono di un’ambulanza, abbandonano tutto d’un tratto la scena, portando lo spettatore a guardare gli stessi personaggi in età adulta. Non vi è alcun riferimento a questo cambio di epoca, chi guarda lo deduce da sé. Lo stesso accade per le scene finali, in cui alcune delle sorelle appaiono come donne anziane. Alcune brevi scene giovanili, che hanno lo scopo di svelare pian piano agli spettatori cosa è accaduto quel giorno al Charleston (ristorante sulla spiaggia di Mondello), fanno capolino ogni tanto nell’opera, dando a tutta la parte di girato che si riferisce alla giovinezza delle sorelle quasi le fattezze di un flashback.

Ciò che quel suono di ambulanza ha significato lo spettatore un po’ se lo immagina già, ma le scene che si soffermano sulle sorelle adulte confermano il sospetto. L’assenza della piccola Antonella è tangibile, così come il suo ripresentarsi continuamente alle sorelle adulte con le stesse fattezze di bambina delle prime scene.

Il trauma delle quattro sorelle maggiori, e il senso di colpa che ognuna a modo suo si attribuisce riguardo l’accaduto, sono forse il messaggio portante dell’opera di Emma Dante. Questo dolore mai risolto ha anch’esso una matrice corale, che si riflette nelle interazioni fra le sorelle Macaluso adulte e poi anziane. Per quanto la macchina da presa si soffermi continuamente sullo sguardo di ognuna di loro inducendo chi guarda a riflettere sulla situazione e sul sentimento personale di ciascuna, sono le loro risate, i loro scontri appassionatamente violenti e le loro grida l’una contro l’altra che più di tutti gettano luce sul fardello della perdita della piccola Antonella, del quale nessuna riesce a liberarsi.

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Palermo, brutta ma rivelatrice di bellezza

Lo spazio abitato e percorso dalle sorelle Macaluso è una Palermo di periferia, fatta di palazzine squallide e scolorite, di grigi e sgradevoli mostri di cemento, di zone verdi incolte e abbandonate. Questo degrado generale si accende però di bellezza di quando in quando, divenendo lo sfondo di gesti e immagini cariche di poesia. Ciò accade soprattutto nelle scene giovanili.

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Il tutto parte da piccoli gesti, come quando Antonella fa girare il naso del pagliaccio-carillon, e la bellezza che ne deriva è contemplativa, fatta di immagini che scorrono, di vedute aeree, di movimenti lenti accompagnati dalla musica di Fabrizio De André, dalla calma voce di Franco Battiato o dalla romantica “Meravigliosa creatura” di Gianna Nannini. Semplici gesti quotidiani sono fondamentali per innescare questi momenti. Parliamo di un passo di danza della sorella maggiore Maria, della bella Pinuccia che mette il rossetto ad Antonella, di Lia che legge a voce alta qualche frase sulla bellezza della vita, di Katia che chiede del suo panino, di Antonella che accarezza amorevolmente una delle colombe con le quali le sorelle si guadagnano da vivere.

Si tratta di gesti senza pretese, eseguiti con la facilità di ciò che fa parte dell’abitudine, ma che, con sorpresa degli spettatori, sono capaci di trasmettere dolcezza e felicità molto più di un gesto eclatante. Allo stesso tempo, però, essi sono portavoce dell’estrema transitorietà della felicità, della quale mettono in luce la fragilità. Nelle scene da adulte, questi gesti rappresentano piuttosto un doloroso ricordo, e sono soppiantati da immagini tetre, a tratti quasi grottesche. Basti pensare ad una magrissima Maria in tutù, gli occhi contornati da occhiaie, che si abbuffa in maniera incontrollata di pasticcini.

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Una foresta di simboli

La drammatica scena di Maria e dei pasticcini spappolati sotto di lei rimanda ad una scena del film “Mine vaganti” di Ferzan Özpetek, in cui la nonna diabetica, dopo essersi vestita e truccata per l’occasione, decide di concedersi un ultimo momento di piacere. I gesti, il modo di mangiare, sono molto simili a quelli di Maria, che per l’occasione ha deciso di indossare il tutù, simbolo del suo sogno di ragazza ormai accantonato. In entrambi i casi, si tratta di un gesto carico di disperazione, capace di trasmettere a chi guarda il disagio in cui il personaggio è immerso. L’unica differenza è che il gesto di Maria è comunicativo, compiuto davanti alle sorelle, presenti alla scena nonostante la cinepresa sembri ignorarle. Quello della nonna è invece un gesto privato, reso palese ai suoi familiari solo dopo la sua morte.

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Dalle colombe al mare

In generale, Le sorelle Macaluso è un film pieno di elementi simbolici. Il più importante è rappresentato dalle colombe, con cui le ragazze riescono a guadagnarsi da vivere vendendole in occasione dei matrimoni. Queste colombe, bianche, grigie o colorate di rosa, sono in primis un forte simbolo dell’emancipazione delle sorelle e del loro sapersela cavare da sole. Esse però rimandano anche alla purezza, la stessa di Antonella. Inoltre, le colombe sono il simbolo della casa: seppur lasciate libere, esse ritornano sempre.

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Anche la casa, squallida e scrostata come le altre della zona ma sovrastata dal mare, è un elemento importante nella scena. Essa è nido di gioie e di dolori, è un luogo insoddisfacente ma allo stesso tempo rifugio sicuro, è dimora di fantasmi dalla quale è impossibile separarsi, nonostante i numerosi tentativi, soprattutto di Katia e Pinuccia. Il mare, il cui manto ondoso è sempre visibile dalla casa, è una presenza costante, un compagno silenzioso, quasi un monito per ricordare a Maria, Pinuccia, Lia e Katia l’attimo in cui la loro felicità è andata in frantumi.

Valutazione
3/5

Le sorelle Macaluso è un film ben recitato e ben costruito, capace di trasmettere in maniera chiara ma non scontata i messaggi in esso contenuti. Un ritratto intriso di quotidianità e di emozioni pure e realistiche. Un omaggio all’amore tra sorelle, al rimorso, alle parole non dette e al dolore non esternato.