il cinematografo
Il Punto Di Svista Del Cinefilo
Il quarto lungometraggio del regista salernitano Sidney Sibilia (dopo la trilogia di Smetto quando voglio) si rivela una frizzante versione piuttosto romanzata della storia vera a cui si ispira, e nonostante la sua leggerezza e comicità, non manca di fornire allo spettatore temi di riflessione, seppur a cuor leggero e con il sorriso sulle labbra.
Giorgio Rosa è un ingegnere molto creativo e fuori dalle righe. La sua testa abbastanza fra le nuvole lo spinge a compiere involontariamente dei piccoli disastri, a volte puniti dalla legge: la società e le sue regole gli vanno stretti. L’idea di costruire una piattaforma di 400 m2 di fronte a Rimini, appena fuori dalle acque territoriali italiane, si rivela inizialmente un successo. Ma le ambizioni di Rosa, che vorrebbe farne uno stato indipendente, e le sue conseguenti richieste alle Nazioni Unite e al Consiglio d’Europa, non possono essere accettate dall’Italia, che passa al contrattacco.
Eroi controcorrente
Un aspetto sul quale Sidney Sibilia non si è mai ancora smentito è quello di raccontare vicende incredibili, o per meglio dire fuori dalle righe, eccezionali seppur perfettamente verosimili. Difatti, i personaggi di queste storie, i cosiddetti eroi – per citare Christopher Vogler – sono di solito individui tanto straordinari quanto non capiti dalla società in cui sono immersi, i quali si trovano a compiere azioni e imprese che, per quanto assurde, alla fine risultano avere sorprendentemente senso. Vengono alla mente Pietro Zinni e la sua banda di geniali ricercatori che fanno uso di tutto il loro acume per sfatare un attentato all’Università della Sapienza, perpetrato da un’altra mente eccelsa e loro sorella, alla quale però il sistema ha inferto ferite più profonde e dolorose. L’ingegnere Giorgio Rosa (interpretato da Elio Germano), seppur in luoghi e tempi diversi, conserva senz’altro molte delle caratteristiche dell’antieroe personificato da Pietro Zinni e dalla sua banda, prima fra tutte la quasi totale inadattabilità a ciò che è convenzionale. Lo si capisce fin dalla sua prima apparizione, che avviene subito dopo quella della sua “automobile” – che più tardi si scoprirà essere stata da lui costruita – semi sommersa dalla neve, parcheggiata di fronte al consiglio d’Europa a Strasburgo. L’ingegnere ci appare in maglietta, visibilmente infreddolito e con la tosse. La sua aura bizzarra riemerge poco dopo per le strade di Bologna, sempre alla guida dello strano veicolo che sembra uscito da un film di fantascienza e che, non essendo neanche provvisto di targa, viene sequestrato dalla polizia municipale. Gli eventi si susseguono poi in un climax ascendente di aspirazioni e azioni che appaiono folli allo spettatore. Ma l’(anti-)eroe in questione non desiste, e la sua caparbietà viene premiata: la piattaforma, successivamente battezzata “Isola delle rose”, non è più solo un progetto fantasioso, ma una tangibile nonché popolare realtà al di fuori delle acque italiane.
L’isola: simbolo utopico di libertà assoluta
Nel film di Sibilia, infatti, l’isola-piattaforma diviene simbolo inequivocabile di libertà assoluta; servendosi di tale metafora, il regista riporta alla luce, forse inconsapevolmente, i frutti di un pensiero filosofico risalente ad alcuni secoli fa. È difatti nel ‘500 che Thomas More ha scritto dell’Isola di Utopia, meta del viaggio dell’esploratore-filosofo Itlodeo, il quale vi scopre una societas perfecta, in cui regnerebbero armonia e giustizia, e in cui tutti gli abitanti agirebbero secondo l’interesse comune e l’innalzamento della società nella sua interezza. Ma, spiega More, l’isola in questione (anch’essa, come l’Isola delle Rose, creata artificialmente da Utopo attraverso un istmo), deve la sua perfezione al semplice fatto che le leggi che la governano, le stesse del mondo reale, non abbiano qui alcun presupposto empirico: l’isola è, di per sé, fuori dal mondo, un non-luogo distante dalla realtà esperibile. Tale immagine si ripresenta in vari filosofi: la Nuova Atlantide di Francis Bacon è anch’essa un’isola, mentre la Città del Sole di Tommaso Campanella è situata su un colle ma circondata da sette cerchia di mura, e perciò ugualmente isolata, al di fuori della realtà di cui si può avere esperienza. L’Inzulo de la Rozoj (il nome originale dell’isola è in esperanto) del film di Sibilia è, allo stesso modo, utopica, nonostante aspiri allo status di luogo reale e riconosciuto. E di fatto, nel corso del film essa oscilla fra utopia e realtà: le acque sono internazionali, sono acque di nessuno, un non-luogo pertanto, però al tempo stesso la distanza da Rimini è minima, così come i collegamenti con il mondo esterno. L’isola è infatti visibile dalla Riviera Romagnola e moltissime persone vi fanno visita, vi è un continuo vai e vieni che annulla, a tratti, l’isolamento. Il sogno di libertà assoluta rimane però un’utopia, come conferma la maniera riduttiva in cui è esposto nel film: la rappresentazione pratica di questa libertà non è altro che la raffigurazione della trasgressione e del divertimento sfrenato. Lo nota anche Gabriella, personaggio del film di cui Giorgio è innamorato (recitato da Matilda de Angelis), la quale tenta varie volte di fargli abbandonare aspirazioni utopiche e abbracciare la realtà, tanto da paragonare l’isola a una discoteca. Il sogno di libertà, pertanto, si guasta nel momento stesso in cui si tenta di renderlo empirico. Il Giorgio Rosa del film, molto probabilmente assai diverso da quello in carne ed ossa, pur tentando di fare sua la massima di Shakespeare “Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”, fallisce nell’intento fino a doverne ammettere l’irrealizzabilità.
Un tuffo negli anni ’60?
La ricostruzione che Sibilia fa degli anni ’60, che, come da lui ammesso, non ha vissuto in prima persona, è senz’altro degna di nota. Difficile dire se il regista salernitano sia riuscito a ricreare con estrema fedeltà i tempi, conservandone atmosfera, luci, ed emozioni; si potrebbe piuttosto dire che ha creato una esaustiva rappresentazione di come gli anni ’60 vengono immaginati dalle persone di oggi. Il gusto vintage, che sta peraltro tornando sempre più di moda, ne è solo la punta dell’iceberg: il fatto che nel 2021 gli spettatori di un film ambientato negli anni ’60 riescano ad apprezzarne le caratteristiche, e a calarsi, quasi con un po’ di nostalgia, nelle vite dei personaggi, sta inequivocabilmente a significare che gli anni ’60 catturati dalla cinepresa sono adattati a quello che gli spettatori del 2021 si immaginano di essi pur non avendoli vissuti in prima persona. Chi guarda il film riesce ad immedesimarsi nei problemi e negli ideali dell’epoca, e questo perché ciò che viene rappresentato è tremendamente attuale: la canzone della scena finale “Eve of destruction”, pur esprimendo il timore di una guerra nucleare e denunciando la violenza degli anni ’60, parla indirettamente anche del clima apocalittico dei nostri giorni, in cui cambiamenti climatici e guerre giocano un ruolo tutt’altro che secondario, turbando inconsciamente gli animi di tutti. Anche il sentimento di ribellione di Giorgio contro lo stato e le sue contraddizioni è presentato nel film in modo quanto mai contemporaneo, tanto da sembrare costruito appositamente affinché lo spettatore odierno si riconosca in esso.
Per comprendere appieno questo concetto basta pensare a un’opera cinematografica figlia degli anni ’60 come “L’ombrellone” di Dino Risi (al quale Sibilia ammette di essersi ispirato). Questa commedia all’italiana, per quanto ambientata in un contesto molto simile, trasmette allo spettatore sensazioni assai diverse: la comicità è continuamente attanagliata da una sensazione di amaro squallore e tristezza. L’incredibile storia dell’isola delle Rose, al contrario, sprizza spensieratezza da tutti i pori, e seppur il regista affermi di rifarsi alla commedia all’italiana, le risate che le sue opere suscitano nello spettatore sono meno pesanti, prive del retrogusto amaro delle commedie di Monicelli, Risi, e altri maestri italiani del passato. Se anche la commedia di Sibilia solleva temi di rilievo che conducono il pubblico a riflettere al di là della satira (si potrebbe citare ad esempio la libertà soltanto apparente dell’individuo di fronte al giogo impostogli dall’istituzione statale), lo fa in maniera più implicita, senza sacrificare la leggerezza del momento di svago previsto dalla visione dei suoi film. Si potrebbe supporre pertanto che questo tipo di commedia contemporanea sia più superficiale di quella di un Dino Risi, più interessata alla risata che al messaggio da essa celato; sarebbe però più corretto riflettere sul valore culturale e storico della comicità, la quale dipende irrinunciabilmente dal contesto di appartenenza dell’individuo. Se ridere è una caratteristica squisitamente e universalmente umana, si ride – e si è riso nella storia – in modi alquanto diversi. E Sidney Sibilia riesce sicuramente ad innescare una genuina risata in coloro che condividono il suo spazio e il suo tempo, nonché la sua idea immaginifica dei favolosi anni ’60.
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