il cinematografo
Il Punto Di Svista Del Cinefilo
Recensione di Claudia Marina Lanzidei
Trama: Giorgetto e Il Professore, due pensionati di Trastevere, romani doc e amici di vecchia data, sono sempre più insofferenti alle difficoltà economiche che si trovano costretti ad affrontare per via della loro scarna pensione. L’idea di Giorgetto di trasferirsi all’estero, progetto al quale si accoda anche lo stravagante coetaneo Attilio, conosciuto quasi per caso dai due amici, si fa sempre più concreto, fino ad assumere il nome di Isole Azzorre. Ma un colpo di scena finale, in aggiunta al magnetismo esercitato da Roma sui tre personaggi, metterà a dura prova il loro progetto di evasione.
Recensione
La quarta opera cinematografica diretta da Gianni Di Gregorio e che si è valsa il David di Donatello per la migliore sceneggiatura non originale, si presenta fin da subito come una commedia recitata rigorosamente in romanesco, in cui la cinepresa si aggira per i vicoli e i bar pittoreschi di Trastevere. In questo modo, le immagini che arrivano allo spettatore riescono ad accostare elementi pieni di fascino ad altri estremamente squallidi: basti pensare all’ufficio INPS in cui Giorgetto (Giorgio Colangeli) e il Professore (interpretato dallo stesso Gianni Di Gregorio) si recano insieme a ritirare la pensione, che viene descritto a colpi di stereotipi esagerati a commedia, capaci di rubare un sorriso di comprensione a praticamente tutti gli spettatori. Anche le conversazioni fra i due amici, che vertono quasi esclusivamente sulle loro insoddisfazioni di pensionati che fanno fatica ad arrivare a fine mese e sul desiderio (quasi inconscio all’inizio, poi via via sempre più reale e realizzabile) di trasferirsi altrove, avvengono sullo sfondo di una Roma solenne e piena di fascino, della quale però i due personaggi sembrano accorgersi a malapena.
IL ROMANESCO PER LA MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
D’altronde, la città eterna è la location di tutti i film diretti finora da Gianni Di Gregorio, che ne fa lo sfondo perfetto per trattare tematiche quali pensionamento e difficoltà economiche, presenti anche negli altri suoi film (ne è un esempio “Pranzo di Ferragosto”), i quali criticano nascostamente, col linguaggio della commedia, determinati aspetti della cattiva amministrazione italiana. Roma è minuziosamente dipinta nel film, e il regista ne fa un ritratto intriso di malinconia da un lato, ma non negando la possibilità già in atto di descrivere un ponte fra passato e futuro. La scena del giovane ex-alunno del Professore che non riesce a capire neanche una parola della frase in latino che lui gli recita, ma che mostra felice al professore la fede che ha al dito, dicendogli che si è sposato proprio con quella Carolina che lui gli aveva suggerito, è uno dei segni più evidenti di questa connessione fra generazioni e di come la romanità stessa muti, mantenendo però elementi costanti nel tempo come ad esempio un senso di affetto genuino e un po’ caciarone.
GRANDE PROVA DI ENNIO FANTASTICHINI
Del trio di personaggi protagonisti del film, il cui terzo elemento è Attilio (Ennio Fantastichini), restauratore di mobili antichi, dotato di un animo sensibile e artistico, e di una vena un po’ fricchettona, il più malinconico è senz’altro il Professore: egli è il più riflessivo e taciturno, e sicuramente il più romantico. Giorgetto è forse una via di mezzo, è lui che ha l’idea iniziale del viaggio, e che cerca di disincantare il Professore riguardo il senso di attaccamento che lo lega alla sua vita a Roma. Attilio è invece il più sorridente dei tre e anche il più ottimista, nonché capace di vedere il bello delle nuove generazioni senza rifugiarsi in un circolo vizioso di nostalgia (come sembra fare invece il Professore).
È proprio Attilio, infatti, che nota Abu, il ragazzo maliano a cui Giorgetto fa il favore di farsi una doccia ogni tanto a casa sua, ed è l’unico dei tre che riesce, subito dopo averlo conosciuto, a farsi raccontare la sua storia e a notare aspetti estremamente drammatici della sua vita a Roma; il fatto di riaccompagnare a “casa” Abu la sera e scoprire che di fatto non ha un tetto sopra la testa scatena qualcosa in Attilio, che lo porterà poi, ancora più degli altri due, a mettere in discussione il loro progetto.
Abu, con la sua gentile timidezza e il suo darsi da fare, è anche lui un prezioso elemento del ritratto che Di Gregorio fa di Roma: per quanto non sia romano, non parli romanesco e non sembri entrarci molto con Roma, anzi pare che ci si trovi quasi per caso, si vede che Abu è in linea con il ritmo di vita della città, che la conosce nei dettagli ed è perfettamente in grado di arrangiarsi e sopravvivere nella sua giungla, così come di coglierne gli aspetti più romantici e umani (come Giorgetto che gli fa fare la doccia, chiedendogli ogni volta se ha mangiato): anche Abu, pertanto, è parte integrante della romanità narrata da Di Gregorio, anzi ne è elemento essenziale e imprescindibile.
UN RITRATTO DI ROMA ATTENTO E POETICO FATTO DA UN NON ROMANO
Ma il tema più esplicitamente prevalente nel film, che si evince anche dal suo titolo, è quello del viaggio, in varie forme. Vi è il viaggio immaginato dai tre protagonisti, inteso come via di fuga da un mondo scomodo e non in grado di prendersi cura di loro. Vi è poi il viaggio di Abu, anch’esso iniziato con una fuga, ma teso alla ricerca di libertà e di nuove possibilità di vita. Il film è particolarmente attento a mostrare, in maniera semplice, la differenza sostanziale fra questi due viaggi, poiché mentre il primo è dettato da quello che sembra a tratti quasi un ostinato capriccio, il secondo si basa sulla sopravvivenza. La breve conversazione fra Abu e Attilio rivela inoltre, in maniera non esplicita ma chiara, il fatto che il privilegio di viaggiare sia di pochi, e si dà il caso, proprio delle persone che non ne hanno un bisogno essenziale: le poche parole pronunciate da Abu e volte a descrivere la sua vita sono un importante spunto di riflessione non solo per Attilio, ma anche per gli spettatori stessi, che giungono, contemporaneamente al protagonista, alla stessa conclusione.
UN FINALE OTTIMISTA CHE ESALTA LA CITTÀ DI ROMA E LA SUA GENTE
Dando al film la piega che gli dà, Di Gregorio sembra far sua la frase del sociologo Zygmunt Baumann, il quale afferma che “bisogna negare agli altri lo stesso diritto alla libertà di movimento che viene elogiato come la massima conquista del mondo globalizzato e la garanzia della sua crescente prosperità”; allo stesso tempo però, il regista, sceneggiatore e attore romano decide di concedersi qualche boccata di ottimismo, e dare al film un barlume di speranza finale, rovesciando per un attimo la frase di Baumann, e rimarcando l’innegabile forza attrattiva che caratterizza Roma e la sua gente.
Come nota conclusiva, si può dire che al film che si è valso la miglior sceneggiatura non originale ai David di Donatello di quest’anno siano da attribuire dialoghi semplici ma efficaci, che trasmettono la genuinità e l’ironia del carattere romanesco, dietro alle quali si nascondono profondità d’animo e senso di solidarietà. In questo modo, luoghi comuni e stereotipi divengono spunto per una riflessione e per qualche immancabile risata.
VOTO: 7
Claudia Marina Lanzidei