Recensione di Claudia Marina Lanzidei
Il famoso regista Marco Bellocchio tenta attraverso questo documentario autobiografico, che si è valso addirittura la Palma d’oro d’onore al festival di Cannes di quest’anno, di dare senso a un dramma familiare accaduto nel lontano dicembre 1968 e che ha visto il disperato gesto di togliersi la vita del suo fratello gemello Camillo, allora ventinovenne. Un percorso lungo un film in cui sorelle e fratelli, amici stretti e lo stesso regista cercano di riportare alla luce la persona di Camillo e le dinamiche che attorno a lui avevano luogo.
Il bisogno di raccontare
Il protagonista di “Marx può aspettare” è Camillo. Questo è ciò che afferma Marco Bellocchio in una delle battute iniziali del film. Il tentativo di ripercorrere una vicenda familiare a lui molto vicina è senz’altro sinonimo di un interesse da parte del regista, nonché della volontà di affrontare a suo modo, attraverso il linguaggio del cinema, un avvenimento che seppur accaduto più di cinquant’anni fa ancora lo tormenta. Ciò è comprensibile e lodevole. Tuttavia, il documentario che ne viene fuori manca di profondità narrativa, e non ha la forza sufficiente per arrivare dritto al cuore di spettatori e spettatrici.
Pur cercando in maniera abbastanza organica di ricostruire la vita di Camillo fin dagli albori – ossia da quando è faticosamente uscito dalla pancia di sua madre ben tre ore dopo suo fratello – il regista, e i fratelli con i quali cerca di condividere racconti ed esperienze, non riescono ad andare a fondo nella personalità di Camillo. Sicuramente il lungo tempo trascorso ha giocato la sua parte, ma da spettatori si ha l’impressione che chi sta parlando di colui che è stato esplicitamente considerato il protagonista del documentario ne avesse una conoscenza superficiale e disattenta.
Nonostante uno dei punti chiave su cui si basa l’interpretazione degli eventi sia il fatto che l’educazione familiare, fermamente cattolica, abbia prediletto fin dalla tenera età la necessità di guardare il proprio e di cavarsela da soli, ciò non basta a giustificare l’estrema lontananza con cui si parla di Camillo nel corso dell’intero film. A dimostrazione di questo sta il fatto che, dopo averne messo in luce le mancanze scolastiche, il carattere debole, le indecisioni esistenziali e la simpatia, nessuno degli interlocutori sembra saper aggiungere altro. Chi ha qualcosa in più da dire, per assurdo, è la sorella di Angela, la fidanzata di Camillo, che critica velatamente il regista per la sua mancanza di attenzioni.
Il protagonista non protagonista
Camillo non è, in effetti, il personaggio principale dei fotogrammi e delle interviste messe in scena da Bellocchio. Se così fosse stato, lo spettatore sarebbe tornato a casa dal cinema con un’idea un po’ più chiara di chi fosse Camillo, di quali fossero i suoi sentimenti e alcuni aspetti della sua personalità. E invece Camillo rimane un essere evanescente, dai contorni confusi, un’entità quasi impersonale, una persona qualunque. La descrizione che di lui viene fatta non è interessante al punto tale da renderlo un soggetto cinematografico.
Piuttosto, si potrebbe affermare che Camillo sia un pretesto, per il regista, per parlare di sé, per mostrare come la sua attività cinematografica sia stata segnata in maniera preponderante dalla realtà vissuta in famiglia fin dall’infanzia. Camillo rappresenta in tutto ciò solo una delle tante pedine che hanno giocato un ruolo nella vita di Marco, al pari del fratello Paolo, il matto bestemmiatore, del prete che minacciava le fiamme dell’inferno, della madre religiosissima che temeva il Limbo per le anime dei bambini non battezzati.
Il dialogo fra i cinque fratelli ancora in vita svela pertanto personaggi, battute ed elementi ricorrenti di molte delle opere del regista piacentino, il quale ripropone, in questa sua ultima creazione, gli spezzoni di alcuni suoi film (come “I pugni in tasca”, “L’ora di religione”, “Gli occhi, la bocca”). Da questi estratti diventa ancora più chiara ed esplicita l’importanza che l’educazione e l’infanzia di Bellocchio hanno esercitato sulla sua creazione cinematografica. Significative le parole del parroco alla fine di “Marx può aspettare”, le quali affermano che per lui guardare le opere di Marco è stato un po’ come averlo seduto nella cabina del confessionale a rivelare le sue colpe e i suoi dubbi sulla fede.
La narrazione del suicidio
È difficile dare un giudizio critico di come temi quali il suicidio o il lutto siano stati narrati attraverso lo schermo, soprattutto se chi racconta si basa su un’esperienza che lo riguarda direttamente. Ognuno ha un suo modo di affrontare la perdita e di interpretarla. Tuttavia, anche in questo caso l’effetto sugli spettatori è che la morte di Camillo venga esposta con distacco, quasi con indifferenza, prediligendo la narrazione di particolari crudi rispetto ai sentimenti che hanno accompagnato il momento. La filosofia di vita dell’“ognuno badi a se stesso” sembra qui trovare la sua più profonda realizzazione.
L’unico dolore autentico e inconsolabile che sembra venire fuori dai racconti dei fratelli e delle sorelle di Camillo è quello della “mamma”, questa donna estremamente religiosa e oltremodo preoccupata per il destino delle anime dopo la morte. Anche in questo caso però non sembra esservi partecipazione emotiva da parte di coloro che raccontano la sofferenza di questa madre.
In “Marx può aspettare” manca, parlando in termini cinematografici, il punto di vista di Camillo, e proprio questa lacuna rivela l’estrema lontananza di tutti i fratelli, il loro pensare ognuno alla propria vita, nonché la poca stima che nutrivano per Camillo. Anche il racconto di come ognuno di loro abbia ricevuto la notizia e reagito ad essa non riesce a catturare l’empatia di chi guarda, lasciandolo spiazzato. Si ha quasi l’impressione che si stia parlando di un conoscente, non di un fratello.
“Marx può aspettare”
Questa frase, l’ultima e forse la più significativa pronunciata dal mediocre Camillo al suo brillante gemello Marco, è effettivamente l’espressione che racchiude il nocciolo del film, cioè il disagio esistenziale di Camillo e l’incapacità di Marco di rendersene conto e di occuparsi del fratello. “Marx può aspettare”, battuta protagonista anche della celebre scena del film “Gli occhi, la bocca” (datato 1982), assume un senso profondo, ed è proprio grazie ad essa che lo spettatore può sperare di cogliere l’elemento chiave del film.
Tuttavia, rimane incerto il livello di presa di coscienza del regista riguardo le sue mancanze come fratello: se da un lato egli ha deciso di inserire in “Marx può aspettare” vari elementi che denunciano la propria disattenzione (quali il fatto di non ricordarsi neanche se ha risposto a una disperata lettera di supporto di Camillo anni prima, o il fatto di non essersi mai interessato a contattare la sua fidanzata Angela, o ancora il fatto di non sapere neanche cosa contenesse il biglietto che aveva lasciato prima di morire), egli non appare molto toccato da questi contenuti di auto-accusa, anzi sembra assumere un atteggiamento spesso di pacata rassegnazione. Il verdetto rimane quindi poco chiaro per chi si cimenti nella visione del film.
“Marx può aspettare” è un film frutto di una nobile intenzione ma forse sbagliato nella realizzazione. Esso non sembra infatti capace di coinvolgere emotivamente lo spettatore, e risulta pertanto arido nel contenuto, privo di pathos, senza che si capisca se ciò è voluto o meno. Camillo, del quale sono messi in luce i non-talenti e le debolezze più che le virtù e le passioni, è un protagonista appena accennato, che attraversa la pellicola senza impressionarla, eclissato dall’antitetica grandezza del fratello gemello. Se la parola fosse stata data a persone più vicine e affezionate al giovane suicida, come la madre o la fidanzata (entrambe decedute), forse il messaggio sarebbe arrivato in maniera più efficacie.