MEDITERRÁNEO
UN FILM DI MARCEL BARRENA
Recensione di Claudia Marina Lanzidei
Mediterráneo, diretto dal regista spagnolo Marcel Barrena, è stato presentato alla XVI edizione della Festa del Cinema di Roma. Durante la proiezione al pubblico sono stati in sala Òscar Camps, fondatore della ONG Open Arms, il suo brillante interprete, Eduard Fernández, il regista e il produttore.
Il film narra la storia vera di Òscar Camps e di Open Arms, che si occupa del salvataggio dei naufraghi nel Mar Mediterraneo, ed ha finora salvato le vite di 60000 profughi. La pellicola narra di come tutto ebbe inizio, in maniera semplice e coraggiosa, da un piccolo gruppo di bagnini di Barcellona, ed in particolare dalla ferrea volontà di Oscar, toccato dall’immagine tragicamente nota del piccolo Aylan Kurdi, morto sul bagnasciuga di una spiaggia greca. È il settembre del 2015, e Oscar, seguito da Gerard, non esita ad abbandonare la sua torretta nella ridente playa spagnola in cui lavora per recarsi nell’isola di Lesbo, teatro di un terribile dramma umanitario che i più cercano di non vedere.
Un’umanità di serie B
Chi decide di guardare questo film è messo ben presto, dopo una manciata di minuti, di fronte all’impossibilità di sottrarsi alle immagini scomode che sta guardando sullo schermo. Nonostante Mediterráneo affronti quella che è forse la tematica più discussa negli ultimi anni, soprattutto in alcune stagioni, lo fa in modo tale da creare una connessione empatica insperata in chiunque si cimenti nella sua visione. Se normalmente la rappresentazione mass-mediatica affronta i fenomeni migratori in maniera allarmistica e allo stesso tempo distante, dipingendo migranti e rifugiati come un problema, un motivo di crisi, e utilizzando, per descrivere i loro spostamenti, termini che suggeriscono ondate e flussi incontrollabili, questo film è incredibilmente in grado di mettere in luce il dramma vissuto da chi scappa dalla guerra e decide di attraversare un braccio di mare su un gommone stracolmo.
In Mediterráneo, allo spettatore è sbattuto in faccia il dato di fatto che vi sono esseri umani più importanti di altri, più liberi, più degni di stare al mondo e di occupare un certo spazio. Chi guarda è portato irrimediabilmente a farsi un esame di coscienza, e a chiedersi come ha potuto ignorare, fino a quel momento, la sofferenza di tutte quelle persone, preoccupandosi magari di problemi e questioni che, guardando le immagini del film, appaiono a dir poco superflui. Ciò che accade nei 112 minuti girati da Marcel Barrena è di fatto un avvicinamento emotivo al problema. Attraverso gli occhi di Òscar Camps, brillantemente interpretato da Eduard Fernandez, lo spettatore riesce a comprendere molto più a fondo le atrocità che alcuni esseri umani, considerati politicamente ed economicamente di serie B, sono costretti a vivere sulla loro pelle, soffrendo come qualunque altro essere umano soffrirebbe. Mediterráneo dà un volto, una voce, un corpo a chi è normalmente rappresentato come nient’altro che un numero.
Lo spettacolo dei confini
L’antropologo Nicholas De Genova, nel descrivere l’attitudine narrativa dei media nei confronti dei movimenti migratori verso l’Unione Europea, parla di spettacolarizzazione dei confini. Il confine, marittimo o terrestre, e il suo attraversamento, è spesso l’unico elemento che interessa il discorso mediatico. Non è la persona che attraversa la frontiera che viene descritta, la quale ha una storia di vita, delle ragioni, delle sofferenze che l’hanno spinta a tentare un gesto in cui è in gioco la sua stessa vita, ma l’atto di attraversare la frontiera e la sua illegalità.
Il confine assume pertanto un’importanza magistrale all’interno del discorso migratorio, come luogo altamente politicizzato, l’unico in cui sembra davvero succedere qualcosa. Anche Mediterráneo si concentra sulla frontiera, e non va troppo oltre le vite delle persone che lo attraversano, ma ne fa una descrizione densa di significato. Il confine di Mediterráneo diventa luogo di vita quotidiana, ogni giorno uguale a se stesso ma anche drasticamente diverso. È il medico del gruppo, una donna siriana che aspetta la figlia Haya sulla spiaggia e spera ogni giorno nel suo arrivo dal mare, che incarna simbolicamente l’importanza del confine come luogo, oltre che di divisione e attraversamento, anche e soprattutto di ricongiungimento, lacrime e gioia.
L’eroe che non si fa vedere
Òscar, l’indiscusso eroe di Mediterráneo, è un tipo bizzarro. Pur non avendo molte delle caratteristiche di un eroe tradizionale (è un semplice bagnino, riservato, ex-alcolista e padre distratto), ha proprio quelle che servono: estrema determinazione, passione per l’obiettivo che vuole perseguire, e soprattutto voglia di rimanere nell’ombra, di non farsi vedere.
Questa caparbia volontà di non stare sotto ai riflettori rimane una questione irrisolta per gran parte del film. Nonostante l’insistenza dei suoi compagni, prima fra tutti la figlia Esther, Òscar, eroe che è quasi un anti-eroe, rimane irremovibile. Solo una graduale presa di coscienza del fatto che da solo non può riuscire a salvare tutti lo spinge alla fine a farsi intervistare. Ciò che lo convince è la metafora dei tre ciechi che toccando ognuno una parte diversa di un elefante, non riescono a percepirlo nella sua interezza e quindi sono tutti e tre convintissimi che si tratti di altri animali.
Il proprio orticello
Mediterráneo è un inno ad espandere la propria visione del mondo, provando ad allungare la linea dell’orizzonte. Di questo processo è messa in luce, attraverso le storie individuali dei personaggi, l’estrema difficoltà. Gerard, il primo a seguire Òscar in Grecia, è forse il carattere che più incarna tale dilemma. Da padre di famiglia con un figlio appena nato, Gerard si ritrova continuamente in bilico tra la missione per la quale combatte con Òscar e una vita a fianco della sua famiglia, ignorando la situazione di Lesbo.
Gerard, anch’egli un eroe poco convenzionale, rappresenta in certi momenti la calamita verso la Spagna, e la fortissima tentazione della resa per riabbracciare un mondo familiare e facile, ma ricco di zone d’ombra, di cose volutamente celate. Allo stesso tempo però, egli è una fonte di energia preziosissima, in grado di fare sempre la differenza.
Il mar Mediterraneo: attrazione turistica e fossa comune
Un altro aspetto dell’opera di Marcel Barrena che fa riflettere è il contrasto, senz’altro ipocrita, fra turismo di massa e fenomeni migratori. Nonostante le due circostanze abbiano luogo entrambe nello stesso mare, e per la precisione nella stessa isola, la differenza di trattamento è a dir poco strabiliante. Se migranti e rifugiati vengono lasciati affogare o, nel caso in cui sopravvivano, sbattuti in un campo profughi dove regnano condizioni disumane, cercando di tenerli il più possibile nascosti, l’area dedicata ai turisti è ridente, soavemente accompagnata dalla musica, cosparsa di pittoreschi ristorantini sulla riva di un porto altrettanto grazioso, quasi un teatrino dove una felicità forzata e finta è in realtà governata niente meno che dal dio denaro.
Questo stridore si fa particolarmente acuto nella scena in cui Esther fa il suo ingresso al porto con un gommone stracolmo di naufraghi: in quel momento, la scenografia si strappa, e quello che c’è dietro le quinte, una scomoda, ignorata realtà, viene a galla, sotto gli occhi stupiti di turisti beati con il boccone di aragosta in mano. Ciò non accade solo in Grecia, ma è un’amara quanto efficacie rappresentazione di quello che ormai è il nostro mondo, perfettamente in linea con ciò che l’antropologo Claude Lévi-Strauss scrisse nel 1955 nella sua opera “Tristi tropici”.
Mediterráneo è un film che tutti dovrebbero guardare, possibilmente davanti allo schermo di un cinema, di modo che le immagini forti, le lacrime, i corpi e i sorrisi che ivi sono rappresentati rimangano più impressi nella mente. Se tutti i cittadini Europei avessero la possibilità di vedere questa pellicola, probabilmente scomparirebbero molte delle frasi omofobe e razziste leggibili e ascoltabili in ogni dove, e l’Europa diventerebbe forse un continente davvero accogliente.