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Il Punto Di Svista Del Cinefilo
In un intervento durante la 54° edizione del festival del cinema di New York (2016) il regista spagnolo Oliver Laxe aveva affermato che di un film lo affascina soprattutto la sua capacità di evocare nello spettatore, anche a distanza di mesi, emozioni e pensieri. Secondo Laxe non è quindi l’immediatezza delle sensazioni ciò che rende valido un film, ma la sua facoltà di riecheggiare per lungo tempo nella mente di chi lo ha visto, sotto forma di scene che riaffiorano alla memoria, associandosi a scene di vita personale dello spettatore, un po’ come delle epifanie joyciane che a mano a mano gettano luce sui perché del film, su alcuni suoi messaggi nascosti. Al tempo Laxe non aveva forse ancora neanche in progetto “O que arde”, ma aveva appena presentato il film “Mimosas”. Eppure si potrebbe ritenere che questa sua affermazione non sia da sottovalutare, ma rappresenti piuttosto un paradigma del suo processo creativo, presente più che mai nella sua ultima opera. Difatti, non si potrebbe in nessun modo negare che “O que arde” sia capace di trasmettere sensazioni forti fin da subito: una splendida fotografia, a tratti quasi impressionistica, a tratti postmoderna, accompagnata da una colonna sonora altrettanto degna di nota, sono capaci di smuovere lo spettatore, e lo rendono partecipe dell’inquietudine, della pace, dell’amarezza, del silenzio, della monotonia e della bellezza che attorniano il figlio cinquantenne Amador e l’anziana madre Benedicta.
Il film racconta del periodo subito successivo all’uscita dal carcere di Amador, accusato di aver appiccato il fuoco nei boschi galiziani dai quali proviene. Amador porta con sé come un’ombra lo stigma della sua accusa, che ne esalta, agli occhi dello spettatore, la fragilità, la sensibilità, e l’inadeguatezza sociale. In questo senso egli è un po’ uno Zeno Cosini ai tempi della globalizzazione, delle nevrosi di massa, dell’abbandono progressivo della vita in campagna. La sua esistenza è scandita dai ritmi della vita rurale, e il lento scorrere del tempo è caratterizzato da pochi eventi significativi e molti momenti contemplativi, in uno stato di fusione quasi totale con la natura bucolica della Galizia. Uomini, animali e alberi condividono il silenzio, spezzato solo da suoni necessari, non una parola o un fruscio di troppo. Basti pensare al primo saluto tra Benedicta e Amador dopo il ritorno di lui dal carcere, svoltosi nell’orto di lei, e scandito da una pioggia fitta e incessante più che da parole umane. O alla scena della colazione nella cucina a legna tipica delle case galiziane, e a detta di Laxe, unico luogo riscaldato della casa e per questo un tempo punto di ritrovo e di socializzazione. Analogamente a queste due, sono molte le scene, oserei dire la maggior parte, in cui il silenzio regna sovrano, accompagnato dalla sensazione che i protagonisti siano irreversibilmente raccolti in sé stessi, facendo i conti con la propria solitudine e sofferenza.
È proprio questo silenzio, battente quanto la pioggia della prima parte del film, che getta luce sulle intenzioni, più o meno consce, del lavoro di Laxe: uno dei messaggi che il film vuole trasmettere è proprio la decadenza di un universo sociale, quello rurale, e la sua lenta ma irreversibile estinzione. Amador è completamente travolto da questo processo brutale, e i suoi tentativi di opporvisi sono tanto spettacolari quanto vani; se la sua diffidenza per i vicini che stanno ristrutturando una vecchia casa per incoraggiare il turismo è evidente fin da subito, così come il suo osservare in maniera torva le gru che buttano giù gli alberi nei pressi di casa sua, la sua reazione, appiccare il fuoco distruggendo le aspettative dei vicini, non è altro che un rispondere con la distruzione alla distruzione, e non previene la fine, la morte dell’universo socio-culturale in questione. Questa sensazione di declino è molto presente nel film, e in alcune scene si nasconde con maestria: se nella scena del funerale di uno degli abitanti del paese è estremamente tangibile, è invece quasi impercettibile nella scena della conversazione in macchina fra Amador e la veterinaria Elena. Sulle note di Suzanne di Leonard Cohen, Elena gli racconta che la sua famiglia era emigrata altrove, ma che lei, innamorata della campagna, aveva deciso di studiare veterinaria e di tornare a vivere nella zona. Amador le risponde dicendole che non c’è bisogno di ottenere un diploma universitario per poter vivere in campagna, e lei gli dà ragione sorridendo. C’è intesa fra i due, nonostante Elena rappresenti la parte di umanità capace di adattarsi con successo al cambiamento, mentre Amador sia il simbolo dell’incapacità di adattarsi, e a contrario di Elena risponde in maniera distruttiva ai cambiamenti sistemici dei nostri giorni.
Benedicta invece, esile e canuta, rappresenta la resistenza ostile e caparbia di ciò che sta velocemente scomparendo, una sua rimanenza pura e non scalfibile, che conosce il bosco e ogni suo singolo tronco, e sa come vivere con esso, come proteggersi dalla tempesta. Ella è una parte profonda di Amador, incarna il suo lato saggio e conoscitore della natura, positivo e capace di padroneggiare la situazione. Il rispetto che le è riservato dai vicini e dagli abitanti del paese si contrappone duramente alla diffidenza e alle prese in giro destinate al figlio. Nell’ultima scena, quella in cui Amador viene spinto con rabbia dai vicini e buttato a terra, è proprio Benedicta a intervenire, aiutando il figlio ad alzarsi ed intimidendo, con la sua sola presenza, l’aggressore. Benedicta è il personaggio in cui Oliver Laxe vorrebbe che ogni spettatore riconoscesse un po’ la propria nonna, sia essa galiziana, spagnola, o una contadina di altra provenienza. È il passato che non si arrende, una ginestra leopardiana che non molla nonostante si trovi già sul ciglio dell’oblio. È grazie a lei che Amador prova, senza riuscirci, a resistere a sua volta, prima di cedere al fascino delle fiamme.
Un’altra riflessione la merita senz’altro la scena con cui Laxe apre la sua opera cinematografica. Alludendo a “Mimosa”, egli aveva descritto la prima scena come riassuntiva dell’intero film. Pur apparentemente estranea al resto, essa racchiuderebbe simbolicamente il messaggio più profondo e caro al regista. La stessa cosa potrebbe essere vera per “O que arde”. I primi minuti del film, nei quali due macchine distruttrici atterrano senza pietà decine di alberi, vedono un intrecciarsi di luci artificiali fredde e geometriche, tonfi sordi degli alberi abbattuti che cedono il passo alle macchine metalliche come fossero fili d’erba, in un avanzare ritmico, lento e inesorabilmente rapido allo stesso tempo. Il lugubre movimento andante del caterpillar si arresta solo quando le sue luci surreali, quasi blu, rivelano, fra gli esili fuscelli prossimi ad essere abbattuti, un albero di altre fattezze, secolare, possente. Qui lo spettatore è portato impulsivamente a un rapido calcolo fisico, che gli fa immediatamente dedurre che l’albero non potrebbe comunque farcela contro il caterpillar. È quest’ultimo però che contro ogni previsione si arresta, e spegne le luci blu.
Nel complesso, il film “O que arde” di Oliver Laxe è un degno portavoce di un cinema lontano dalla grande industria e da interessi prettamente legati agli incassi. Si tratta di un cinema di nicchia, che affronta temi di rilevanza sociale, denunciando i paradossi che caratterizzano la contemporaneità. Pur trattandosi di cinema di finzione, in alcuni momenti “O que arde” assume quasi la forma di un documentario agli occhi dello spettatore, e non tralascia importanti elementi biografici cari al regista: la casa di Amador e Benedicta sul set è infatti la stessa in cui hanno vissuto i nonni di Oliver Laxe. Oltre che un artista, si potrebbe dire che egli sia antropologo, sociologo, nonché un individuo volenteroso di scoprire e valorizzare le proprie radici. Queste ultime sono un elemento fondamentale per la creatività del regista franco-spagnolo, nato in Francia da emigrati galiziani. Egli stesso afferma in un’intervista di aver scelto gli attori di “O que arde” sulla base del fatto che avessero le radici, nel viso e nelle mani, ossia che fossero in collegamento con la loro essenza. Ciò si sposa anche con l’intento più alto di Laxe come regista, ossia quello di far riscoprire allo spettatore le proprie radici, di riconoscersi all’interno del film almeno in qualcosa, sia pure un dettaglio, come le scarpe che indossa Amador per andare in paese, molto note e vendute in Spagna. Forse non è un caso che Amador parli delle radici degli eucalipti descrivendo il groviglio che queste sono capaci di creare sottoterra per chilometri, soffocando tutto il resto.
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