QUI RIDO IO
UN FILM DI MARIO MARTONE
Recensione di Claudia Marina Lanzidei
Il nuovo film di Mario Martone, recentemente presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, narra di un pezzo di vita di Eduardo Scarpetta, noto commediografo napoletano vissuto a cavallo fra Ottocento e Novecento, ed in particolare della sua disputa, risoltasi in tribunale, contro il celebre Gabriele D’Annunzio. Qui rido io è un film squisitamente napoletano, un ritratto del tempo, nonché un elogio al teatro comico e alla risata.
Il teatro nel cinema
I centotrentadue minuti di “Qui rido io”, abilmente diretti e sublimemente interpretati da due dei fondatori di Teatri Uniti (rispettivamente Mario Martone e Toni Servillo), sono perfettamente in linea con la filosofia della celebre compagnia teatrale napoletana, di cui Toni Servillo è anche il direttore artistico. L’opera infatti si presenta come un omaggio al teatro, ed in particolare alla commedia, e centra in pieno quella commistione tra cinema e teatro di cui Teatri Uniti si è fatto portavoce già in altre occasioni. A ciò si aggiunge una napoletanità degna di un Professor Bellavista la quale, similmente a molte delle creazioni precedenti del regista, pervade l’intero film.
La cinepresa che spia il teatro
Difatti, fin dalle prime inquadrature, la macchina da presa si insinua abilmente fra gli spazi del teatro, spiando attori e spettatori, e trasmettendo quell’atmosfera, tesa ed intima al tempo stesso, che è propria del palcoscenico: una sistemata al trucco sugli occhi, una sbirciatina dietro le quinte, un’occhiata agli spettatori in attesa della battuta che li farà scoppiare a ridere, e che già sanno sta per essere pronunciata, è nell’aria. Dal camerino, su e giù per una serie di scale, stretti corridoi e passaggi angusti, il teatro appare subito come un luogo labirintico, in cui è facile rendersi visibili a tutti così come nascondersi e non farsi trovare.
La macchina da presa permette quindi, ancor più degli occhi curiosi e viaggiatori di uno spettatore in platea, di captare il dietro le quinte, osservando allo stesso tempo il palco e ciò che dietro di esso si nasconde. Il susseguirsi delle scene e degli eventi ad esse contemporanei è così rapida e frenetica che chi guarda il film impiega qualche minuto per adattarsi ad una dimensione tanto energicamente e puramente teatrale. Le maschere, difatti, rimangono indosso anche quando si è dietro le quinte in attesa di rientrare, e ciò rende sicuramente l’atmosfera ancor più meta-teatrale.
Tra figli e nipoti
Ma in “Qui rido io” il teatro non si limita al momento dello spettacolo messo in scena dalla compagnia del calamitico Eduardo Scarpetta, osannato dal pubblico napoletano per il suo Felice Sciosciamocca, che ha di gran lunga scavalcato Pulcinella in popolarità. La famiglia molto variegata e numerosa degli Scarpetta è infatti interamente votata alla recitazione, tanto che la vita del celebre commediografo appare come una continua e bizzarra messinscena.
Uno degli aspetti che lascia lo spettatore più di stucco è l’intricata composizione della famiglia di Eduardo. Se la coniuge ufficiale del talentuoso e ricco teatrante è una (Rosa De Filippo, interpretata da Maria Nazionale), ben tre sono le donne con cui Eduardo Scarpetta ha una relazione stabile, e con le quali periodicamente ha dei figli. Le tre donne vivono tutte sotto lo stesso tetto e conoscono perfettamente la dinamica, che accettano tacitamente.
E così il famoso Scarpetta si ritrova circondato da una miriade di figli di ogni età, molti dei quali chiama nipoti, venendo da essi a sua volta chiamato zio. Una consuetudine accettata e conosciuta anche dai figli stessi (o almeno da quasi tutti), uno strascico culturale della presenza araba a Napoli, trasformatosi in una pseudo-poligamia. Se questo aspetto contribuisce enormemente ad alimentare un’atmosfera di continua finzione, di frecciatine e sguardi equivoci, esso mostra, soprattutto in alcuni momenti del film, il suo lato più tormentato e doloroso.
I De Filippo
Il gruppo di fratelli su cui la storia si sofferma maggiormente è quello dei De Filippo (Titina, il famosissimo Eduardo ancora ragazzino, e Peppino), figli di Luisa, una nipote della moglie di Scarpetta. I tre giovani De Filippo si fanno così portavoce dei sentimenti ambivalenti che, nel corso degli eventi, sono portati a nutrire per il padre-zio, il quale non li ha mai riconosciuti come figli suoi. Se l’ammirazione per Eduardo Scarpetta è altissima – i ragazzi infatti, soprattutto i maggiori, pendono letteralmente dalle sue labbra – altrettanto è il disgusto, così come il timore reverenziale che essi sono portati a provare in determinate situazioni.
Qui rido io: un encomio alla parodia?
Al di là delle vicende familiari, una delle intenzioni principali del film è proprio quella di documentare un fatto storico realmente accaduto e particolarmente aneddotico. Si tratta del primo processo in Italia in cui si sia riconosciuto il valore di una parodia e la sua differenziazione giuridica rispetto ad una contraffazione. Difatti, quest’ultima era stata l’accusa che il poeta vate Gabriele D’Annunzio (il cui vero nome, come fa notare ironicamente Scarpetta a un certo punto, era Rapagnetta) aveva rivolto a “Il figlio di Iorio”, opera parodica scritta da Scarpetta del dramma di D’annunzio “La figlia di Iorio“. Sebbene le sorti del processo sembrassero inevitabilmente veleggiare verso l’allora intoccabile autore de “Il Piacere”, un’abile analisi di Benedetto Croce e una sua impeccabile interpretazione teatralmente esposta davanti al giudice da parte di un Eduardo Scarpetta particolarmente in vena, riescono a rovesciare totalmente la situazione.
La vicenda è narrata fin dai suoi primissimi istanti di vita, quando, recandosi la compagnia a Roma per mettere in scena uno dei suoi spettacoli, Vincenzo, il figlio maggiore di Eduardo (interpretato dal suo tris-nipote Eduardo Scarpetta) legge sul giornale l’annuncio dello spettacolo di D’Annunzio dal titolo “La figlia di Iorio”. È proprio in quell’istante che gli occhi di Scarpetta lampeggiano per la prima volta, e l’idea di una parodia si insinua nella sua mente creatrice. La scena poi in cui l’intera famiglia assiste alla rappresentazione dannunziana è particolarmente efficace nel dare un’idea del genio di Scarpetta. Le battute di una delle scene più drammatiche e ricche di pathos della tragedia dannunziana sono viste dal commediografo napoletano già in chiave parodistica. La presa in giro di D’Annunzio si materializza davanti ai suoi occhi attraverso un’alternanza continua tra presente e flash-forward (la compagnia di Scarpetta che imita battute e gesti in chiave comica).
L’energia contagiosa del teatro e il suo slancio di libertà
Al di là della narrazione storica, delle contradditorie vicende familiari e della risata, quello che è probabilmente il messaggio più forte di “Qui rido io” è l’amore incondizionato per il teatro, visto sia come momento sul palcoscenico che come continua vena creativa. Ciò non è espresso solamente attraverso l’onnipresenza del teatro per tutta la durata dell’opera, ma soprattutto attraverso l’entusiasmo contagioso di Eduardo Scarpetta, che si trasmette ad ognuno dei suoi figli, dal maggiore Vincenzo (il quale ereditò poi la compagnia del padre), al piccolo e illegittimo Peppino.
La figura di Eduardo De Filippo, che al tempo della narrazione era un ragazzino ancora acerbo e ingenuo, ma già talentuoso e stregato dal teatro del padre, è forse quella in cui questo scambio vivace e continuo di conoscenze, passioni e trucchi del mestiere si fa più evidente. È proprio il giovane Eduardo che riesce a convincere il ribelle fratellino Peppino a tornare sul palco, recitando davanti al padre. È in questa scena decisiva che Eduardo paragona il teatro, ed in particolare il luogo fisico del palcoscenico, alla libertà, intimando a Peppino di non fuggire da quel luogo, perché lì si trova quello che sta cercando. Questa frase, pronunciata da bambino a bambino, è un riassunto perfetto della limpidezza con cui Eduardo vede il teatro e l’opera del padre: al di là dei vizi e delle contraddizioni che caratterizzano Scarpetta, il suo amore e la capacità di trasmetterlo ai suoi figli lo rendono meritevole di redenzione e ammirazione.
Un film ben fatto e ben pensato, capace di far viaggiare gli spettatori con la mente nel tempo e nello spazio. Il ritratto multi prospettico di un uomo tanto geniale quanto eccentrico, creato dagli occhi di coloro che più di tutti lo hanno contraddittoriamente amato e odiato, lasciandosi ispirare e accettando di vedere il palcoscenico come un luogo di estrema libertà.