Dopo quel piccolo gioiellino di “Autopsy” che nel 2016 consacrava il norvegese alla produzione internazionale, quest’anno André Øvredal torna nuovamente con un horror, forse con una minore potenza rispetto al suo precedente lavoro ma di sicura riuscita commerciale.
“Scary Stories To Tell In The Dark” infatti è la “classica” storia di un gruppetto di adolescenti bullizzati e giocherelloni, che la notte di Halloween, dopo aver fatto uno “scherzetto” al bullo di turno vanno a nascondersi nella macchina di uno sconosciuto in un drive-in.
Scacciato il bullo, invece di restare a gustarsi il capolavoro romeriano del ‘68, decidono di passare la serata andando a visitare una casa che si vocifera essere stregata.
Attenti al libro stregato!
Trovano il libro della figlia dei proprietari (all’epoca adolescente come loro) con su scritte store dell’orrore.
Leggenda vuole che la ragazza racconti direttamente le storie stregate.
Tale Sarah Bellows legge il libro ai poveri sventurati che per curiosità si addentrano nella casa infestata.
La giovane protagonista (Stella), aspirante scrittrice, prende di nascosto il libro risvegliando la “maledizione” su di lei e sul suo gruppo di amici.
Le storie che stella legge sul libro sono le peggiori paure di ogni membro del gruppo, che vengono scritte in tempo reale per mano(insanguinata) di Sarah, decimandone uno dopo l’altro.
Diffidare sempre delle proprie paure!
Obiettivo fermare il libro risalendo alle origini della famiglia Bellows.
Se con “Autopsy” la paura era creata dalle atmosfere claustrofobiche di un obitorio, con Scary Stories To Tell In The Dark è la paura stessa a manifestarsi e a perseguitare i protagonisti.
Questi sono figli di un’America nixoniana alle porte Vietnam colma di razzismo e indifferenza.
È forse quella paura della guerra imminente, della desolazione e incertezza che avevano i ragazzi di quell’epoca che il regista ha voluto cecare di spiegare.
Ennesima trovata commerciale zeppa di jump scare che tanto va di moda adesso al cinema?
Non vanta sicuramente la tensione e la paura del già citato “Autopsy” ma ha dalla sua un interessantissimo soggetto che vive grazie ad un’ottima regia e fotografia (ormai al limite della produzione industriale).
Però lascia il tempo che trova.
Di Michelangelo Mattei
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