“Spirit World” di Eric Khoo: un viaggio liminale tra realtà e sogno
Nella trama evanescente e nelle immagini rarefatte di Spirit World (2024), Eric Khoo ci invita a oltrepassare il confine tra la vita e la morte, tra l’essere e il non-essere, in un’opera che appare come una riflessione visiva sulla decostruzione dei binari del reale. Khoo, maestro della narrazione non lineare, ci presenta non solo una storia, ma una frammentazione dell’identità, della percezione e del tempo, elementi che richiedono una lettura filosofica che travalica il semplice racconto filmico.
Il personaggio di Claire Emery, interpretato da un’iconica Catherine Deneuve, è il veicolo attraverso cui si esplora il concetto derridiano di “différance”, la perenne distanza tra l’identità e la sua rappresentazione. Claire è un soggetto decostruito, sospeso in un limbo tra una carriera finita e un’esistenza che si dissolve tra rimpianti e incontri con spettri. Non è più una rockstar, né un semplice essere umano; è piuttosto una traccia, una figura la cui identità sfuma e si riconfigura nel dialogo tra la vita e l’aldilà. Il viaggio a Tokyo, presentato come ultimo atto della sua carriera, assume un tono metafisico che destabilizza ogni certezza ontologica.
Il tempo come evento decentrato
Uno dei tratti salienti della poetica di Khoo è il rifiuto di un tempo lineare. Qui, il tempo è dilatato, disperso in piani sequenza che sembrano sospendere l’avvenire. Attraverso questa grammatica filmica, lo spettatore è trascinato in una dimensione in cui la temporalità stessa si dissolve. Tokyo, con i suoi bagliori di neon e la notte perpetua, non è un semplice sfondo urbano, ma diventa un luogo “fuori dal tempo”, un’eternità che assorbe Claire e lo spettatore. Nel contesto post-strutturalista, questo è il luogo del “ritardo” (come inteso da Derrida), dove la significazione si sposta, rimandando costantemente un’interpretazione definitiva degli eventi.
La fotografia di Spirit World diventa, quindi, un dispositivo che mette in discussione la natura della realtà. I toni soffusi e l’uso calibrato della luce evocano la presenza di un’altra dimensione, non più regolata dalle logiche della rappresentazione tradizionale. Questo dialogo visivo tra realtà e sogno è parte integrante della decostruzione del film stesso: non esiste più una distinzione tra l’una e l’altro. In fondo, Claire non “vede” i fantasmi, ma è inglobata dalla loro stessa esistenza, che è sempre già frammentata e scivolosa.
L’identità frammentata e l’esperienza del fantasma
I fantasmi che Claire incontra non sono semplici figure simboliche, ma sono piuttosto delle “quasi-presenze” che mettono in crisi l’idea stessa dell’essere. Jacques Derrida, nel suo lavoro su Spettri di Marx, descrive il fantasma come un essere che non è né presente né assente, che si manifesta sempre in una modalità di “essere-non-essere”. Claire, nel suo viaggio, non fa che attraversare questa soglia liminale, dove l’identità è decostruita e ogni tentativo di recupero del passato è costantemente rimandato.
Non solo. La figura stessa di Claire, donna in declino, icona di un passato glorioso, incarna un soggetto che esiste in un’interstizialità che Khoo esplora con la delicatezza di un esteta. La sua identità, così come la sua esistenza, è smembrata in frammenti di memoria, di rimpianto e di desiderio, ed è nel confronto con i due spiriti (interpretati da Masaaki Sakai e Yutaka Takenouchi) che Claire riconosce, in modo dolorosamente consapevole, la vacuità della sua stessa essenza. Non c’è catarsi, non c’è redenzione; c’è solo un perpetuo rimandare, un’esistenza che, come direbbe Lacan, si fonda su un “mancare a sé stessi”.
L’aldilà come simulacro
Il bar dove Claire si rifugia dopo il concerto non è semplicemente un luogo fisico, ma diventa l’emblema di un non-luogo, uno spazio simbolico che evoca l’immagine baudrillardiana del simulacro: un’illusione che rifiuta ogni corrispondenza con il reale. Qui, non ci sono più verità da scoprire, né realtà da riportare in superficie. L’aldilà, nel film di Khoo, è una superficie di proiezione dove Claire rivede i suoi fantasmi, ma non per trovarvi delle risposte, bensì per affondare nel vuoto di un’identità che si dissolve. Il bar è il limbo, il “nulla” tra due mondi, ma non come luogo di transizione, bensì come spazio dell’indeterminatezza, dove l’essere e il nulla si fondono.
Conclusione: l’esistenza come sospensione indefinita
In Spirit World, Eric Khoo costruisce una riflessione sull’essere e sul morire che va oltre il semplice racconto di una vita al crepuscolo. Claire non è una figura tragica, ma piuttosto una presenza che esiste in un costante stato di decostruzione. Il film non offre risposte, ma piuttosto apre spazi di interrogazione sul significato dell’esistenza e della morte, spazi che rimangono volutamente vuoti, come i piani lunghi e le inquadrature dilatate che dominano la messa in scena. L’opera di Khoo si colloca così nel contesto di una riflessione post-strutturalista sulla fragilità dell’identità, sulla dissoluzione del tempo e sull’impossibilità di giungere a un senso ultimo.
Il viaggio di Claire, dunque, è un continuo oscillare tra l’essere e il non-essere, tra la vita e la morte, dove ogni confine è decostruito e ogni certezza è negata. In questa “mondo degli spiriti”, Khoo ci invita a guardare oltre il visibile, verso quell’indefinito che sfugge a ogni tentativo di categorizzazione.