il cinematografo
Il Punto Di Svista Del Cinefilo
- Rubrica: Fuori dai nostri schemi (Docufilm)
- Claudia Marina Lanzidei
Recensione: Per la durata di settantadue minuti fumo e fiamme invadono la cinepresa. Ma non si tratta di un allegro fuocherello che riempie di gioia gli animi. Il fumo è nero, pesante, le fiamme sono rosse e intense, e avvolgono delle masse informi, grovigli di fili che sembrano quasi palle infuocate. Lo scenario di questo tripudio di fuoco è di un grigio-marroncino, creato da oggetti ammassati, di cui non si vede la fine. Fa eccezione una striscia di terra polverosa dove razzolano galline e brucano mucche, ignare, quasi si trattasse di un fotomontaggio. Musica non ce n’è, i suoni sono unicamente quelli sprigionati dal luogo rappresentato. Si sta parlando della discarica di rifiuti elettronici più vasta del globo, situata ad Agbogbloshie, alla periferia di Accra, capitale Ghanese. Ogni anno, quarantamila tonnellate di rifiuti elettronici di vario tipo (dai frigoriferi, ai computer, alle aspirapolveri, ai climatizzatori) vengono importate dall’Europa e dagli Stati Uniti, camuffati da oggetti di seconda mano dati in beneficienza. La verità è che molti dei dispositivi non sono più funzionanti e non possono essere riparati, e che quindi Agbogbloshie è un accumulatore di oggetti non più utili che i paesi occidentali non sono in grado di smaltire come dovrebbero. Di questi rifiuti in Ghana si salva tutto il salvabile, anche i metalli (preziosi e non), che implicano la combustione della plastica che li avvolge. Questa è l’occupazione di migliaia di Ghanesi che vivono ad Agbogbloshie, di solito trasferitivisi da altre regioni del paese a causa della siccità, i quali guadagnano, rivendendo tali metalli, pochi dollari al giorno. La loro aspettativa di vita, a seguito delle inalazioni di metalli pesanti e fumi tossici alle quali sono soggetti, è di poco più di trent’anni.
Il documentario di Justin Weinrich vuole essere un ritratto di questa discarica, la descrizione di una giornata e della routine delle persone che lavorano in essa. Il passare lento delle ore è scandito dalla ripetitività dei gesti compiuti, che rende il film quasi noioso, a tratti addirittura stomachevole, ma volutamente. La dimensione fondamentale è quella della quotidianità, in cui le azioni sono ripetute mille volte sullo sfondo di un paesaggio febbrilmente grigio e tossico. Il fuoco sembra non avere mai fine, la speranza, nello spettatore, di vedere un falò che sta per estinguersi è tradita ogni volta dall’innesco di un altro fuoco, che una volta presa vita sembra librarsi nell’aria indomabile accompagnato dal fumo nero. Gli esseri umani si aggirano in questo spazio con aria quasi indifferente, non sembrano essere toccati dalla sgradevolezza del luogo e dagli odori, che lo spettatore può solo immaginare; sono attorniati, avvolti dai fumi, ma non sembrano cercare di discostarsene, piuttosto avanzano apparentemente incolumi in essi. La bellezza di alcuni, ad esempio delle bambine che vendono acqua, caramelle e sigarette, quasi stride con il resto. Il fuoco, e i volti delle persone che parlano, è ripreso da varie distanze, fino ad arrivare ad un livello di dettaglio molto accurato, tanto da far quasi smarrire l’occhio che lo osserva: la materia rimane parzialmente impalpabile allo spettatore, quasi astratta, sicuramente una materia anonima, senza nome.
Le persone intervistate esprimono con le parole tutta la loro disperazione, ma nessuno sembra lasciare indietro la speranza. La loro giovinezza li porta a non abbandonare sogni e immaginari migliori per un futuro incerto. Vi è da una parte il desiderio di essere altrove e un senso di progettualità futura che si estende al di fuori di Agbogbloshie, dall’altra un forte attaccamento alla realtà del luogo presente e alla sua logica. La scena di socialità in cui le venditrici ambulanti del luogo, bambine di sette o otto anni, chiacchierano tra loro, mostra questa immersione totale nelle dinamiche del posto. Nonostante la loro casa e la famiglia siano spesso nominate, la conversazione si incentra sugli articoli venduti e da vendere, sui soldi guadagnati, e sulla necessità di vendere ancora. Vi è una stonatura in tutto ciò, forse proprio il fatto che dalle bocche di queste bambine esca qualcosa di inaspettato per la loro giovane età, discorsi da adulte, su temi dei quali non dovrebbero sapere nulla.
Il tema della morte, nonostante trapeli la sua quotidianità e centralità, è appena sfiorato, come se non ci si volesse troppo pensare. La conversazione fra due ragazzi accenna, quasi all’inizio del film, la presenza della varicella (chicken pox) e il fatto che stia colpendo una dopo l’altra numerose persone. Quasi alla fine del film viene citato da un ragazzo intervistato l’episodio di un uomo trovato morto qualche tempo addietro nel laghetto adiacente al prato e ai rifiuti. Dal suo racconto, sembra che allo specchio d’acqua stagnante sia attribuita una sorta di aura di sacralità, che deriva però proprio dalla sua ripugnanza e inavvicinabilità. E ancora, il ragazzo intervistato prosegue menzionando un edificio dove i corpi dei morti vengono raccolti. L’esistenza di questo luogo è appena accennata, non vi è quasi il tempo per lo spettatore di realizzare di cosa si tratti, né di comprendere a pieno la dimensione estremamente quotidiana che lo avvolge. Il dubbio insorge – in chi guarda il film – solo poco dopo, quando la persona intervistata sta già parlando di altro. La morte è un tema tabù, un tema che si cerca in tutti i modi di evitare, e quando non è possibile si cerca di liquidare in fretta.
Con le sue immagini suggestive ma quasi apocalittiche, i suoi silenzi e la sua noia, gli accostamenti fuori tono fra elementi che si penserebbero incompatibili e le sue testimonianze dolorose ma cariche di speranza, il documentario vuole innescare nello spettatore una riflessione più profonda sulle dinamiche globali che hanno portato all’esistenza di un luogo come Agbogbloshie e sulle responsabilità dell’Occidente. Attraverso la contemplazione dell’orrore di cui è in parte artefice, lo spettatore occidentale è portato a provare un senso di colpa. Ma è davvero così? E i protagonisti, le persone che vivono e muoiono ad Agbogbloshie, hanno davvero voce? Non bisogna dimenticare che il regista del documentario è egli stesso un occidentale, e che le persone parlano e offrono testimonianza delle loro esistenze, ma lo fanno in gran parte rispondendo a delle domande, o comunque a un format d’intervista non deciso da loro. Per quanto il film sia illuminante e in grado di suscitare effettivamente delle riflessioni in chi lo guarda, non si può negare che il suo scopo sia di comunicare a un pubblico occidentale cosa stia succedendo altrove, in un altro posto, lontano. Ciononostante, nell’affrontare vari temi salienti legati al luogo che sta descrivendo, il film ha una forte potenza comunicativa. In particolare, il ritratto che “The burning field” fa di Agbogbloshie contribuisce a dare una forma e un luogo al concetto di “rifiuto”, di “waste”. Se l’antropologa Mary Douglas nel 1966 definì tutto ciò che è “dirt” (sporcizia) come “matter out of place” (materia fuori luogo), verrebbe da pensare che ad Agbogbloshie sia vero il contrario, e che i rifiuti siano esattamente ‘al loro posto’.