True Mothers
recensione
Recensione di Massimiliano Artibani.
Film della regista giapponese Naomi Kawase racconta la storia di una madre, Satoko che non può avere figli e di una giovane madre Hikari che rimasta incinta a 14 anni non può crescere il proprio figlio. Le due entrano in contatto tramite un associazione fondata da un signora che avrebbe voluto tanto essere una madre ma non ha potuto esserlo ed ora si dedica a trovare madri ai figli di queste giovani ragazze. La storia però non è raccontata in maniera così lineare, ma ci troviamo di fronte ad un intreccio dilatato tra il presente e il passato dei diversi protagonisti in cui la causalità degli eventi è quella dell’intesità emotiva delle relazioni. Il punto di vista è sempre quello della madre, sia nell’essenza che nel desiderio, ingaggiandosi in inquadrature che raccontano le relazioni ed i conflitti sempre con lo sguardo della protagonista femminile che in quel momento si trova a rivestire il ruolo materno. la scansione del tempo è quella dell’osservazione interiore, della autoriflessione. Ogni evento, ogni cambiamento, mette i protagonisti in una condizione di necessaria presa di coscienza e riflessione su di sé. I primi piani prolungati ed intensi sui personaggi fermi e pensierosi, i dialoghi quasi sempre con toni calmi e sommessi ne sono l’emblematica esemplificazione. Tutto ci viene raccontato nella sua autenticità come per ribadire la volontà di non nascondere niente agli spettatori e come se la regista volesse sostenere che esiste un registro dei veri sentimenti, quello della verità assoluta, dove niente è tenuto nascosto, ma vada raggiunta, raccolta e disvelata. Tutti i personaggi del film non hanno assolutamente problemi a ricercarsi e raccontarsi per come sono, con le loro debolezze, l’unica che cerca di nascondersi e dissimulare è Hikari che però è la più piccola, è colei che ancora deve trovare il proprio posto e sopratutto accettare il proprio destino. Ci viene mostrato una sorta di sentiero da percorrere, per poter mostrare in maniera piena la nostra umanità, è quello dell’ascolto dell’altro, del venire incontro ai suoi bisogni comprendendoli. E’ come se la regista ci dicesse che esiste ancora la via dell’empatia, quella che partendo dall’ascolto di noi stessi ci permette di comprendere il dolore degli altri. Il film ricorda i grandi registi giapponesi più nel ritmo che nella fotografia e non scade mai in un realismo melodrammatico, Satoko si vergogna quando è costretta ad allontanarsi dal suo registro intimo e discreto. È raccontato come un lunga riflessione a voce alta sulla natura femminile e materna di cui abbiamo profondamente bisogno.